Dove è finito il nostro tempo

Sto avendo nell’ultimo periodo, e nella mia cerchia di frequentazioni non sono il solo, la sensazione di non essere abbastanza spesso a casa, a godersene la tranquillità e gli affetti e, allo stesso tempo, di non essere abbastanza spesso fuori casa, per fare cose divertenti e curare (o manutenere) la rete sociale.

Sembra una contraddizione, ma sono sempre più convinto che non lo sia.

Ma prima un passo indietro.

Il modello di organizzazione che ha retto fino agli anni 90 (e oggi in crisi nella direzione sbagliata) è anche noto come 8/8/8, cioè 8 ore di lavoro, 8 di sonno, 8 di tempo libero.

Sostengo che alla prova dei fatti sia sempre stato un modello 10/10/4 se non addirittura 14/10/0.

Il primo argomento che porto è che per dormire 8 ore ne servono almeno due in più per prepararsi la sera, prendere sonno (possibilmente senza farmaci), prepararsi la mattina e fare colazione.

Il secondo, quello sul tempo di lavoro, è più lungo e va diviso in due parti.

In primo luogo per cedere 8 ore al datore di lavoro si rinuncia anche a mezz’ora almeno di pausa pranzo e, nella migliore delle ipotesi, due mezz’ore di trasferimento casa e lavoro. Circa dieci ore “carico lavoratore”.

Inoltre questo conto deriva da una visione capitalista e lavorista per cui se non è retribuito non è lavoro. Invece dovremmo riconoscere che è lavoro tutto ciò che può essere delegato dietro compenso ma per cui, in alcuni casi, si ricorre all’autoproduzione. Gli esempi più comuni oggi sono il lavoro di cura e il lavoro domestico.

Sfido chiunque a negare che il lavoro domestico (fare la spesa, cucinare, pulire casa, fare lavatrici, riordinare, …) non richieda almeno una o due ore al giorno (retribuite a terzi o in auto produzione). Allo stesso modo qualunque genitore, o figlio di anziani, o membro di una coppia con carichi di lavoro sbilanciati (per mille diversi motivi) può testimoniare che due ore di lavoro di cura al giorno sono una situazione fortunata.

Possiamo dire, con una battuta, che se non nasci ricco, nel momento in cui cominci a lavorare, avrai nella migliore delle ipotesi quattro ore per te.

In quattro ore (dovendo includere gli spostamenti) vai a cena con amici, vai a prendere un tè facendo una lunga chiacchierata, vai a teatro, al cinema, fai una partita a un gioco da tavolo, guardi un paio di episodi di una serie tv sul divano avvolta in un plaid, ti alleni nel tuo sport preferito o in qualche forma di espressione artistica o artigiana, vai a una riunione di circolo, fai un attività di volontariato, prendi il tempo per una sessione di terapia o una visita medica. Ma una sola di queste cose.

In una settimana puoi fare cinque cose (qualcuna di più se nel weekend non viaggi, non devi recuperare lavoro -domestico o di cura- o sonno arretrato): non sono molte.

E scegliere le cinque giuste, che ci facciano stare bene, richiede una conoscenza del sé che nessuno ci guida a ricercare durante la scuola e che, incredibilmente, richiede tempo, dovendone sostituire almeno una delle altre cinque.

Per tornare alla sensazione iniziale, non è che sembra di non avere tempo: è che non abbiamo tempo.

Siamo compressi in una società capitalista che pur di garantire rendite produce e consuma più di quanto serve, riempiendosi di lavori di merda e bisogni di consumo indotti.

Dobbiamo pretendere di lavorare meno con un potere d’acquisto maggiore, ma non le 32/36 ore di cui tanti “illuminati” capitani di azienda si vantano, serve ridurre l’orario di lavoro a 20 ore, se non meno, (un part-time) per tutti.

(I soldi ci sono, i ricchi non servono alla società e possono essere tassati molto più di oggi, dare i soldi ai poveri quasi si ripaga da sé con l’aumento di attività economica che ne consegue. Ma soprattutto la moneta non esiste nella realtà, è un costrutto sociale con cui dividiamo i diritti di proprietà sui beni materiali e orientiamo la produzione. Nel momento in cui, come oggi, produciamo abbastanza per non far morire nessuno di fame non è il PIL che deve interessarci, ma il numero di poveri e, al limite, l’output materiale.)

(Oggi in Italia sono retribuite poco più della metà delle ore che la popolazione adulta può lavorare considerando una settimana da 40 ore, ma c’è chi ne fa 60, chi è disoccupato e chi campa sulle spalle degli altri)

Economia Reale

L’economia è reale sempre per negazione.
Perché non finanziaria, e quindi legata a effettivi processi produttivi che includono merci e lavoratori. (Si potrebbe descrivere anche la finanza come sistema produttivo che trasforma il debito, ma questa osservazione ci porterebbe comunque verso il discorso che mi appresto a fare)
Perché non teorica, e quindi radicata nell’esperienza concreta e immanente.
Oppure, aggiungo io, perché non normativa, legata cioè a effettivi processi materiali che, sebbene sicuramente determinati da cultura, società e norme, ad esse precedono.
Alla base di ogni fenomeno economico ci sono tre cose: materia, tempo, conoscenza.
La conoscenza determina come possiamo impiegare il tempo delle persone per trasformare la materia.
Oltre la trasformazione della materia per mezzo del tempo di esseri umani, tutto diviene norma, prassi culturale che indirizza i processi reali.
La moneta è comoda, ma come fissare il giusto prezzo e quindi il giusto valore è un problema aperto dagli albori dell’economia classica.
I diritti di proprietà sono senza dubbio comodi, ma hanno una legittimità culturale, spesso cristallizzando rapporti di forza nella società. Come è possibile che il Congo sia al contempo uno dei bacini minerari di maggiore valore al mondo e uno dei territori più poveri?
Abbiamo interiorizzato il concetto di retribuzione del capitale per mezzo del profitto, ma né l’accumulo di capitale, né la sua retribuzione o l’estrazione di profitto sono necessari per trasformare materia in materia per mezzo del tempo.
La scelta di limitare la diffusione di conoscenza attraverso brevetti e la legalità delle norme di riservatezza non è un prerequisito per l’economia, ma una norma sociale volta, generalmente, a tutelare posizioni di vantaggio.

Allora forse l’economia reale la dovremmo definire perché non immaginata, imperfetta e sfruttatrice, e dovremmo chiamarci a uno sforzo di immaginazione narrativa e non solo, per costruire dal nocciolo necessario dell’economia un’economia giusta