The epistemological contraposition is not limited to the ‘kind’ of mathematics used: taking the complexity perspective to its extreme consequences leads to criticisms to mathematics tout court – i.e. including chaos and bifurcations.
Statistica o Econometria?
Nella pratica economica contemporanea si parla molto raramente di statistica e il suo ruolo viene ricoperto dall’econometria.
In entrambi i casi il tentativo è di generalizzare dai dati validando un modello teorico e/o stimando dei parametri di esso.
La statistica ha molti strumenti diversi (modelli parametrici e non parametrici, bayesiani e non bayesiani, processi stocastici e stime puntuali, regressioni e test di verifica di ipotesi) per cui è sempre necessario riconoscere quale sia lo specifico strumento più adatto a rispondere a una specifica domanda di ricerca.
L’econometria invece parte dalle regressioni lineari e su di queste costruisce correzioni e migliorie per adattarle a problemi diversi, trascurando gran parte degli altri metodi statistici. Perché?
I modelli microeconomici neoclassici fanno ampio uso di funzioni lineari (o linearizzabili tipo la funzione di Cobb-Douglas il cui logaritmo è lineare) e di ottimi vincolati, quei valori per cui la derivata prima (il valore marginale in gergo tecnico) è uguale per due funzioni.
In questo contesto è evidente che una regressione lineare è efficace sia nel validare il modello teorico (lineare) che nell’evidenziare il comportamento marginale (i coefficienti della regressione stimano la derivata nel modello). Da qui la ricerca teorica ha cercato di migliorare i metodi, soprattutto per poter ottenere risultati robusti da dataset piccoli o poco bilanciati.
Ma nel momento in cui facciamo un passo indietro e cerchiamo di introdurre modelli non-lineari nell’economia e di superare la visione marginalista di un’economia all’equilibrio, qual è il valore aggiunto di studiare econometria invece che farsi forza di una conoscenza più variegata e sfaccettata della statistica? Solo pubblicare nei journal che contano?
Quando avrei dovuto studiarlo?
Premessa, ho un curriculo di studi strano, non ho mai studiato economia in maniera strutturata prima dell’ultimo anno di magistrale, più o meno. Ma confrontandomi con amici che invece a economia ci hanno preso prima e seconda laurea sembra che ciò non sia particolarmente influente.
Se si prova ad avvicinarsi alla disciplina da una prospettiva un po’ eterodossa, volendo approfondire come l’organizzazione gerarchica della società e la diversità tra le persone vengono trattate, è possibile che oggi si venga in contatto coi post-keynesiani.
Leggendoli si trovano citati spesso Marx, Ricardo, Keynes, Sraffa, Minksy, Kalecki, e via giù nella tana del bianconiglio.
È l’impressione è che (dal mio punto di vista necessariamente) non ci sia una teoria dominante e un’interpretazione univoca di concetti come mercato, capitale, capitalismo, lavoro, valore, e che quindi sia rilevante leggere e provare a capire ognuno di questi autori. Quantomeno per conoscere quali idee sono già state proposte, quali i loro punti forti e deboli.
La sensazione fortissima degli ultimi giorni è che avrei bisogno di un dottorato passato solo a studiare, senza la pretesa di scrivere articoli originale e significativi, cosa che nell’organizzazione attuale dell’università, a partire dal modello “tre articoli” per la tesi di dottorato, non è realistica.
E mi chiedo, quando dovrei (o avrei dovuto) studiare tutto ciò per rimettermi in pari, se non sono trattati quasi nemmeno nei corsi di magistrale e nella didattica iniziale di molti corsi di dottorato?
Una necessità di politica e futuro
C’è un pianeta da salvare per garantirsi un futuro dignitoso. Le soluzioni ci sono, secondo l’IPCC, ma non si riescono a mettere in pratica.
C’è un paese (e un continente e un pianeta) attraversato da impoverimento e crisi sociali. Le soluzioni si intravedono ma non si riescono a mettere in pratica.
C’è la voglia, da parte mia almeno ma non credo soltanto, di ricreare comunità e di partecipare alla definizione e alla realizzazione di politiche e politica. Ma non ho davvero più idea di come fare…
La giusta scala per guardare l’economia
La teoria della complessità si occupa di studiare fenomeni che hanno caratteristiche diverse a differenti scale temporali, spaziali o di aggregazione.
Un punto di (ri)partenza per provare a portare avanti il programma di ricerca sinceramente complesso dell’Economia della Complessità, invece che limitarsi a usare gli strumenti matematici della complessità, è descrivere le differenti scale a cui l’economia (economy) può essere descritta.
Questo esercizio di decostruzione del reale può essere il primo tassello per ricostruire quali siano le interazioni significative ad ogni scala e poter riavvicinarsi alla ricerca quantitativa con la necessaria chiarezza di pensiero.
Dreaming of (Artificial) Society
Nel processo di verifica di una teoria ha un ruolo determinate l’esperimento, cioè l’osservazione ripetuta di un aspetto del reale in condizioni note e, possibilmente, replicabili.
Ci si può quindi chiedere come si indaga il non reale, il possibile? O anche come si indaga ciò che non si riesce a esperire perché raro o insolito?
La fisica o la chimica hanno costruito imponenti apparati strumentali per catturare fenomeni rari, sfuggevoli o per spingere il reale ai suoi limiti.
Quando però si parla di società questo non si può fare: non è considerato eticamente accettabile (e sono d’accordo con ciò) sottoporre persone a esperimenti sociali (e quindi economici) dagli esiti incerti.
Ci si trova quindi davanti al problema che se vogliamo studiare in modo empirico la società possiamo studiare solo questa società, le sue norme sociali e i suoi rapporti di forza.
Di per sé può non sembrare un problema, è il mondo in cui viviamo che ci interessa, ma questo mondo è frutto di norme sociali e non leggi di natura. Ed è legittimo, se non doveroso, metterle in discussione.
Arrivando al punto: se questo capitalismo non sta funzionando (per lo meno in Italia) come studiamo delle alternative? Possiamo certo studiare questa realtà per capirne fino in fondo debolezze e contraddizioni, ma dopo?
Dopo dobbiamo cominciare a immaginare, con gli strumenti del racconto forse (tanti spunti ancora oggi arrivano dal fantastico e fantascientifico), e provare a capire cosa dell’immaginato può diventare reale.
Un professore mi suggerì anni fa (con parole mie perché la mia memoria è quel che è) che si fanno modelli ad agenti perché se non riusciamo a descrivere un aspetto di una società complessa in una simulazione dove abbiamo tutto sotto controllo difficilmente riusciremo a farlo nella realtà. Possiamo dire che una policy che non riusciamo a fare funzionare in silico difficilmente funzionerà in vivo.
D’altra parte, sin dagli albori dei modelli ad agenti si ricorre il tema di simulare delle società (come Sugarscape).
Mi viene infine da chiedermi se, quindi, non potrebbe essere un serio e necessario programma di ricerca immaginare altri reali e simularli, cercandone punti di debolezza e contraddizioni, dimenticandosi della necessità di confrontarsi con questo reale.
(Oggi forse più del racconto il ruolo di immaginare altri reali lo hanno i videogiochi, in particolari imponenti gestionali, Paradox su tutti, che devono costruire un modello di economia e società per riuscire nel loro racconto e lo fanno in maniera molto simile ai modelli ad agenti. Potremmo essere di fronte a un nuovo strumento di ricerca collettiva? Si apre la possibilità di esplorare numerosi scenari e trovare le debolezze dei reali immaginati grazie a un numero di giocatori potenzialmente maggiore del numero di ricercatori che potranno mai partecipare a un progetto. In qualche modo un accidentale precedente è EVE online e i suoi report sull’economia sintetica del gioco.)