Brevi note di stile su “Produzione di merci a mezzo merci”

Il libro di Sraffa arriva prepotente da un’altra epoca e due cose saltano all’occhio per la distanza con la ricerca moderna.

Sraffa non cita, se non brevemente in un’appendice. Quelle lunghe pagine di introduzione la cui assenza oggi è sufficiente per bloccare la pubblicazione di un lavoro, in Sraffa sono relegate alle fine, come un pezzo superfluo.
Questo non disturba perché Sraffa tratta un Problema, una Questione la cui importanza è autoevidente e non necessita di una giustificazione data dal contesto sociale in cui si fa ricerca.
Viene da chiedersi se oggi sia ancora possibile affrontare le Questioni solo per la loro rilevanza intrinseca o se sia inevitabile ripercorrere temi di ricerca che trovano giustificazione in una prassi autoriferita e guidata dalla discipline come insieme di persone invece che di conoscenze.

La prosa e il lessico di Sraffa, l’uso del formalismo, rimangono accessibili anche a un lettore non esperto. Il rigore è sacrificato sull’altare dell’intelligibilità, della possibilità di trasmettere la nuova conoscenza al di fuori di una cerchia ristretta di esperti.
Vocazione opposta al ricorso fatto da alcune Scuole al formalismo in quanto tale per erigersi alla sommità della disciplina e tagliare le gambe a quelle Questioni che mal si prestano a essere descritte nei termini dell’algebra lineare o dell’analisi.

Sul perché il concetto di merce base sia utile per costruire un ponte con l’Economia fondamentale o sul parallelismo tra la programmazione funzionale e il modo di Sraffa di registrare l’invecchiamento del capitale fisso tornerò forse altrove.

Dove è finito il nostro tempo

Sto avendo nell’ultimo periodo, e nella mia cerchia di frequentazioni non sono il solo, la sensazione di non essere abbastanza spesso a casa, a godersene la tranquillità e gli affetti e, allo stesso tempo, di non essere abbastanza spesso fuori casa, per fare cose divertenti e curare (o manutenere) la rete sociale.

Sembra una contraddizione, ma sono sempre più convinto che non lo sia.

Ma prima un passo indietro.

Il modello di organizzazione che ha retto fino agli anni 90 (e oggi in crisi nella direzione sbagliata) è anche noto come 8/8/8, cioè 8 ore di lavoro, 8 di sonno, 8 di tempo libero.

Sostengo che alla prova dei fatti sia sempre stato un modello 10/10/4 se non addirittura 14/10/0.

Il primo argomento che porto è che per dormire 8 ore ne servono almeno due in più per prepararsi la sera, prendere sonno (possibilmente senza farmaci), prepararsi la mattina e fare colazione.

Il secondo, quello sul tempo di lavoro, è più lungo e va diviso in due parti.

In primo luogo per cedere 8 ore al datore di lavoro si rinuncia anche a mezz’ora almeno di pausa pranzo e, nella migliore delle ipotesi, due mezz’ore di trasferimento casa e lavoro. Circa dieci ore “carico lavoratore”.

Inoltre questo conto deriva da una visione capitalista e lavorista per cui se non è retribuito non è lavoro. Invece dovremmo riconoscere che è lavoro tutto ciò che può essere delegato dietro compenso ma per cui, in alcuni casi, si ricorre all’autoproduzione. Gli esempi più comuni oggi sono il lavoro di cura e il lavoro domestico.

Sfido chiunque a negare che il lavoro domestico (fare la spesa, cucinare, pulire casa, fare lavatrici, riordinare, …) non richieda almeno una o due ore al giorno (retribuite a terzi o in auto produzione). Allo stesso modo qualunque genitore, o figlio di anziani, o membro di una coppia con carichi di lavoro sbilanciati (per mille diversi motivi) può testimoniare che due ore di lavoro di cura al giorno sono una situazione fortunata.

Possiamo dire, con una battuta, che se non nasci ricco, nel momento in cui cominci a lavorare, avrai nella migliore delle ipotesi quattro ore per te.

In quattro ore (dovendo includere gli spostamenti) vai a cena con amici, vai a prendere un tè facendo una lunga chiacchierata, vai a teatro, al cinema, fai una partita a un gioco da tavolo, guardi un paio di episodi di una serie tv sul divano avvolta in un plaid, ti alleni nel tuo sport preferito o in qualche forma di espressione artistica o artigiana, vai a una riunione di circolo, fai un attività di volontariato, prendi il tempo per una sessione di terapia o una visita medica. Ma una sola di queste cose.

In una settimana puoi fare cinque cose (qualcuna di più se nel weekend non viaggi, non devi recuperare lavoro -domestico o di cura- o sonno arretrato): non sono molte.

E scegliere le cinque giuste, che ci facciano stare bene, richiede una conoscenza del sé che nessuno ci guida a ricercare durante la scuola e che, incredibilmente, richiede tempo, dovendone sostituire almeno una delle altre cinque.

Per tornare alla sensazione iniziale, non è che sembra di non avere tempo: è che non abbiamo tempo.

Siamo compressi in una società capitalista che pur di garantire rendite produce e consuma più di quanto serve, riempiendosi di lavori di merda e bisogni di consumo indotti.

Dobbiamo pretendere di lavorare meno con un potere d’acquisto maggiore, ma non le 32/36 ore di cui tanti “illuminati” capitani di azienda si vantano, serve ridurre l’orario di lavoro a 20 ore, se non meno, (un part-time) per tutti.

(I soldi ci sono, i ricchi non servono alla società e possono essere tassati molto più di oggi, dare i soldi ai poveri quasi si ripaga da sé con l’aumento di attività economica che ne consegue. Ma soprattutto la moneta non esiste nella realtà, è un costrutto sociale con cui dividiamo i diritti di proprietà sui beni materiali e orientiamo la produzione. Nel momento in cui, come oggi, produciamo abbastanza per non far morire nessuno di fame non è il PIL che deve interessarci, ma il numero di poveri e, al limite, l’output materiale.)

(Oggi in Italia sono retribuite poco più della metà delle ore che la popolazione adulta può lavorare considerando una settimana da 40 ore, ma c’è chi ne fa 60, chi è disoccupato e chi campa sulle spalle degli altri)

Merce o Denaro?

Il più semplice ed essenziale sistema economico non richiede denaro. Beni e servizi (di qui in poi merci) possono essere scambiati direttamente tra loro in un meccanismo di baratto, usati direttamente come forma di retribuzione (il contadino pagato con parte del raccolto) o gestiti direttamente dalla comunità (per consenso o per concessione del tiranno).

In questo senso il sistema economico base è Merce -> Merce (MM).

Non è però il sistema più comodo, anzi. Portarsi dietro chili di grano per comprare una sedia non è pratico, e non è detto che il falegname necessiti di grano invece che di pomodori.

In quest’ottica è evidente perché il denaro come mezzo di scambio e contabilità sia stato inventato.

Un economia Merce -> Denaro -> Merce (MDM), in cui cioè il lavoro viene salariato con moneta, semplifica il commercio rendendo commisurabili beni diversi e permette di gestire in maniera decentralizzate l’allocazione di risorse scarse.

Il punto focale del sistema economico è ancora la produzione dei beni e servizi utili alla vita, ma rende inevitabile determinare come si retribuisce il lavoro.

La risposta più comune è che un lavoratore verrà pagato di più (cioè si valuterà di più il suo tempo) tanto meno sia sostituibile per capacità o condizione sociale.

È ragionevole supporre che in un sistema MDM, così come in un sistema MM, si possa parlare prevalentemente di valore d’uso piuttosto che di valore di scambio soprattutto nello studio di ciò che guida la domanda di merci.

La catena MDM è chiaramente parziale e rappresenta una chiave di lettura di quale sia tra merce e denaro il punto focale dello studio del sistema economico e il principale motore.

Nella realtà infatti la catena è …MDMDMDMDMD…, poiché la merce acquistata da uno è merce venduta da qualcun altro che perciò riceve denaro con cui acquistare merce, eccetera.

L’altro modo di spezzare la catena è Denaro -> Merce -> Denaro (DMD), ovvero quel tipo di economia in cui la produzione di beni è servizi non diviene più il fulcro del sistema, ma un modo di generare interessi sul capitale, ovvero di estrarre dalla produzione plusvalore.

DMD è probabilmente l’essenza e la definizione di Capitalismo ed è un sistema economico che funziona solo per le élite, per coloro che dispongono all’inizio del ciclo di un capitale superiore ai loro bisogni di consumo.

Anche in un sistema che complessivamente è, se misurato in valore, DMD, perché la ricchezza è molto concentrata, il grosso delle persone continua a vivere in un sistema MDM.

Caratteristica di un sistema DMD è che il valore d’uso e il valore di scambio finiscono per coincidere con quest’ultimo, perché l’unico uso di una merce è l’essere rivenduta.

Infine la finanziarizzazione dell’economia produce un sottosistema che è Denaro -> Denaro (DD), in cui la compravendita non avviene più su beni e servizi materiale, ma su debiti, titoli di proprietà o, generalizzando, su beni astratti generati da norme e istituzioni.

Un sistema DD completa quella separazione tra massa e élite: i primi necessitano di un’economia MDM, i secondi possono disinteressarsi dell’economia reale (cioè della produzione di merci).

Infine un sistema DD è necessariamente estrattivo poiché non è in grado di creare di valore ma solo di riallocarlo, dalla massa alle élite.

Finisco questa riflessione guardando al futuro.

Il denaro nasce come mezzo di gestione della scarsità e di decentralizzazione delle decisioni, ma diventa strumento di accumulo e estrazione di ricchezza.

A meno di non inserire un terzo elemento abbiamo elencato tutte le possibili catene, e allora un’economia post-capitalista deve necessariamente inserirsi in una di queste quattro.

Potrebbe essere relativamente semplice tornare a un’economia MDM attuando forti politiche redistributive e che prevengano accumuli di ricchezza, ma potrebbe non essere la sola soluzione.

Speculando, un’economia post-capitalista (e vagamente cyberpunk) MM si potrebbe basare su due fattori: la relativa abbondanza di molti delle merci necessarie a garantire un buon tenore di vita, data anche dall’automazione, e la capacità, mostrata per esempio da Amazon, di utilizzare i dati sul commercio per pianificare in maniera efficace l’economia.

Un economia del genere eliminerebbe il denaro eliminando lo scambio economico: un nuovo patto di cittadinanza garantirebbe ad ogni cittadino la possibilità di lavorare per produrre una delle merci necessarie e in cambio l’accesso a tutte le merci necessarie.

Non è uno scenario realistico, ma alcune proposte negli ultimi anni mostrano dei passi intermedi in quella direzione: reddito di base universale, beni comuni, cooperativismo, programmi di lavoro garantito, un ritorno al welfare universale, …

Economia Reale

L’economia è reale sempre per negazione.
Perché non finanziaria, e quindi legata a effettivi processi produttivi che includono merci e lavoratori. (Si potrebbe descrivere anche la finanza come sistema produttivo che trasforma il debito, ma questa osservazione ci porterebbe comunque verso il discorso che mi appresto a fare)
Perché non teorica, e quindi radicata nell’esperienza concreta e immanente.
Oppure, aggiungo io, perché non normativa, legata cioè a effettivi processi materiali che, sebbene sicuramente determinati da cultura, società e norme, ad esse precedono.
Alla base di ogni fenomeno economico ci sono tre cose: materia, tempo, conoscenza.
La conoscenza determina come possiamo impiegare il tempo delle persone per trasformare la materia.
Oltre la trasformazione della materia per mezzo del tempo di esseri umani, tutto diviene norma, prassi culturale che indirizza i processi reali.
La moneta è comoda, ma come fissare il giusto prezzo e quindi il giusto valore è un problema aperto dagli albori dell’economia classica.
I diritti di proprietà sono senza dubbio comodi, ma hanno una legittimità culturale, spesso cristallizzando rapporti di forza nella società. Come è possibile che il Congo sia al contempo uno dei bacini minerari di maggiore valore al mondo e uno dei territori più poveri?
Abbiamo interiorizzato il concetto di retribuzione del capitale per mezzo del profitto, ma né l’accumulo di capitale, né la sua retribuzione o l’estrazione di profitto sono necessari per trasformare materia in materia per mezzo del tempo.
La scelta di limitare la diffusione di conoscenza attraverso brevetti e la legalità delle norme di riservatezza non è un prerequisito per l’economia, ma una norma sociale volta, generalmente, a tutelare posizioni di vantaggio.

Allora forse l’economia reale la dovremmo definire perché non immaginata, imperfetta e sfruttatrice, e dovremmo chiamarci a uno sforzo di immaginazione narrativa e non solo, per costruire dal nocciolo necessario dell’economia un’economia giusta

Statistica o Econometria?

Nella pratica economica contemporanea si parla molto raramente di statistica e il suo ruolo viene ricoperto dall’econometria.

In entrambi i casi il tentativo è di generalizzare dai dati validando un modello teorico e/o stimando dei parametri di esso.

La statistica ha molti strumenti diversi (modelli parametrici e non parametrici, bayesiani e non bayesiani, processi stocastici e stime puntuali, regressioni e test di verifica di ipotesi) per cui è sempre necessario riconoscere quale sia lo specifico strumento più adatto a rispondere a una specifica domanda di ricerca.

L’econometria invece parte dalle regressioni lineari e su di queste costruisce correzioni e migliorie per adattarle a problemi diversi, trascurando gran parte degli altri metodi statistici. Perché?

I modelli microeconomici neoclassici fanno ampio uso di funzioni lineari (o linearizzabili tipo la funzione di Cobb-Douglas il cui logaritmo è lineare) e di ottimi vincolati, quei valori per cui la derivata prima (il valore marginale in gergo tecnico) è uguale per due funzioni.

In questo contesto è evidente che una regressione lineare è efficace sia nel validare il modello teorico (lineare) che nell’evidenziare il comportamento marginale (i coefficienti della regressione stimano la derivata nel modello). Da qui la ricerca teorica ha cercato di migliorare i metodi, soprattutto per poter ottenere risultati robusti da dataset piccoli o poco bilanciati.

Ma nel momento in cui facciamo un passo indietro e cerchiamo di introdurre modelli non-lineari nell’economia e di superare la visione marginalista di un’economia all’equilibrio, qual è il valore aggiunto di studiare econometria invece che farsi forza di una conoscenza più variegata e sfaccettata della statistica? Solo pubblicare nei journal che contano?