Caino

(Ascolta su Bobo)

Abele, scusami Abele
io, davvero, non volevo
è stato un istante, un istante di rabbia, il primo e l’ultimo
Abele, me lo avete insegnato voi a comportarmi così
non hai mai trattato con gentilezza un montone tu
e nostro padre, non ci ha cresciuto che a schiaffi, per ogni errore
e ogni delusione
e io ero una delusione
È stato solo uno spintone in una discussione, Abele, e tu sei caduto, hai picchiato la testa
Oh scusami Abele, scusami!
Tu devi scusarmi, tu che non puoi più
Io non mi pensavo capace di uccidere, oggi io non mi credo essere stato capace di uccidere
Ma tu mi rinfacciavi ancora una volta la soddisfazione nei occhi del padre e del Padre davanti al sacrificio dei tuoi montoni
Ci hanno cresciuti Abele convincendoci di avere uno scopo nella vita “onorare il padre”…
io non ci credo più, non posso crederci più, che scopo ha oggi la mia vita, che scopo ha?
Mi sono piegato la schiena nei campi, ogni giorno, per coltivare il grano per mettere in tavola il pane, per farvi avere tutti i giorni frutta e verdura sulla tavola
Ma i vostri occhi e i suoi non se ne sono accorti mai
Io ai vostri occhi e ai suoi, sparivo
Io che mi sforzavo ogni giorno di una generosità quotidiana, di un impegno silenzioso e costante, di una presenza sicura, io sparivo
(mi davate per scontata?)
E non potevo sentirti Abele farti bello del tuo lavoro di pastore, in questo Eden dai prati verdi e senza lupi, dove le pecore camperebbero anche da sole
Non potevo sentirti, quella sera al tramonto con le mie mani callose e la terra ancora nelle mie narici, decantare il tuo sacrificio, quando i miei, le messi frutto di mesi di lavoro, messi che non crescerebbero da sole, soffocate dal bosco e dal prato, continuavano a essere ignorate.
E non so quella sera in cosa fosse diversa, Abele, quella sera io come fossi diverso, ma ti spinsi, del resto era l’unica lingua che conoscevi, tenero sbruffone
E niente Abele, io ti spinsi e tu non sei più qui

e lui non è più qui
e così, padre, parlasti col Padre e per quel primo e quell’ultimo, unico mio momento di rabbia, accecato dalla tua di rabbia, che ti proteggeva e ti protegge dal tuo dolore, dalle tue colpe, dalle tue contraddizioni
tu, padre, decretasti: “fine pena mai”
come se quella pena potesse finire, il rimorso, la colpa,potessero scomparire
come se non mi alzassi ancora ogni giorno chiedendomi come io lo avrei potuto evitare, cosa io avrei potuto fare per essere migliore o appena decente, in cosa io avessi sbagliato per non essere riuscito a imparare una non-violenza che nessuno poteva insegnarmi.
(mi sveglio ancora tutti i giorni chiedendomi cosa altro avrei potuto fare per essere amata?)
ti chiedo padre, come pensavi potesse finire una pena marchiata nel mio corpo, un corpo che si fa manifesto di quella violenza ancestrale, la violenza del padre e del fratello, la violenza del maschile
quella violenza che non ho mai capito, quella violenza che non ho mai agito con dolo, o con convinzione.
Quella violenza di cui sono stato capace una volta, una sola e unica volta, per abitudine, leggerezza, inconsapevolezza.
Per errore.
ti chiedo padre, la tua pena se è mai iniziata, se il tuo rimorso per la violenza che ci hai mostrato, e agito, sia mai comparso
ti chiedo padre, se davvero sei così inconsapevole da pensare che questo corpo non fosse di per sé già una pena…

Feci voti quel giorno, quel giorno in cui col marchio arrivò l’esilio dalla vostra ipocrisia
Ripudiai la rabbia e la violenza
Mi promisi di espiare con l’esempio la mia colpa, o almeno cercare di allontanarla, di soffocarla, di imparare a fidarmi di poter agire in maniera diversa
Feci della mia vita testimonianza di cura e disinteresse, vissi nella prassi dell’abnegazione e della meraviglia
Mi trovai costretto a viaggiare, d’improvviso divenni apolide, nomade, vagabondo, migrante, senza più un posto da chiamare casa.
Ovunque mi fermassi insegnavo a coltivare le messi e innestare la frutta
Ovunque mi fermassi mi mettevo in mezzo alle liti, mi facevo raccontare altri modi di gestire l’infelicità
Ovunque mi fermassi mi perdevo negli occhi delle persone, nei loro piccoli gesti, nei loro racconti sempre fatti a metà, nei mondi fino a quel momento impensabili che mi aprivano davanti agli occhi
(è davvero così strano che continui a innamorarmi di tutto?)
Finché non riuscivo più a nascondere il mio corpo, il dolore che portavo dentro, la violenza di cui era eco eterno, era un dettaglio, una svista, un momento di eccessiva tranquillità dove mi lasciavo andare, dove riuscivo a essere me stesso, svestivo i panni del vagabondo e tornavo per un momento, uno solo brevissimo Caino
E allora, insieme a me, diventavo anche il fratricida, improvvisamente ci si ricordava fossi straniero, mi riscoprivano mostro, assassino, violento
Sparivano le messi, gli alberi da frutto, i racconti, le ore passate a bere insieme, a scoprire mondi
Sparivo io
E ogni villaggio mi perdevo un po’ di più, nascondevo il mio corpo, cercavo di dimenticarmelo, e con esso il mio desiderio
Ero diventato zelota, missionario che si dimentica di sé pur di cercare un posto nel mondo che non troverà mai, ero un archetipo ormai, mi ero fatto Prometeo pur essendo uomo e non avendo più un Padre da tradire

Finché non sono arrivato nella terra di Nod, finché non sono arrivato da te, Lilith, e nella tua contrada di emarginati, liminali e indicibili
Dove mi prendi con te, incurante del mio passato, accomodata nelle pieghe del mio presente, cercando con gli occhi il mio futuro
Dove mi accogli in te, Lilith, incurante della mia colpa, e mi lasci perdere nei tuoi occhi, nel racconto di mondi che hai potuto soltanto immaginare
Mi hai insegnato il perdono Lilith, mi hai insegnato che quello che si rompe si può aggiustare, insieme
Mi hai finalmente guardato, con l’affetto con cui una madre guarda sua figlia, un maestro il discepolo che lascia la scuola
Con la complicità con cui si guardano gli amanti
Mi sono persa nei tuoi silenzi e nei tuoi sguardi, ho conosciuto il tuo dolore e ti ho mostrato il mio, fondendoli in un sogno, nell’utopia di un mondo diverso, di un mondo nostro
Amami Lilith, ti prego, amami, amami ancora!
almeno tu senza riserve, senza doverti dimostrare nulla, senza dover aver paura di questo corpo, senza dover interpretare i tuoi segni
lasciami perdere in te e perditi in me, amami ogni giorno, con spontaneità, come fosse un’abitudine presa da bambine, qualcosa di immanente dal tempo che non può che essere
amami nei piccoli gesti, nel tuo essere presente nei momenti vuoti, nel riempire le soglie, nel sognare insieme futuri sempre diversi e finora impensabili
Non lasciarti spaventare dal dolore che ho lasciato alle mie spalle, guarda l’affetto che semino davanti a me, per raccoglierne poi i frutti
Amami Lilith, ti prego, amami
Ma anche tu Lilith, mi hai rifiutato, in un modo nuovo e bellissimo, rifiutando la mia colpa, ma soccombendo alla mia voglia di vivere
Ti sei allontanata Lilith perché sono strabordata nel momento in cui non ho più dovuto trattenermi, non ho più dovuto nascondere me e il mio corpo, e tu ti sei sentita scomparire
Ci siamo sentite vivissime insieme, mi hai insegnato la fiducia nel possibile, abbiamo vissuto vite afferrando i sintomi del nostro esistere
(Finché per te non è stato troppo, finché io per te non sono stata troppo)

Ho vissuto ancora per qualche tempo a Nod, prima che l’aria ferma e quel presente immobile mi costringessero a ripartire, sapendo per una volta che almeno lì, almeno da te sarei potuta tornare, a piccoli pezzi, a piccoli passi
Ora continuo a vagare di villaggio in villaggio, per insegnare un’altra vita
Ora semino senza mai raccogliere, la terra che aro, il grano che semino, cresceranno, ma non sarò lì per vederle
Vago come un nomade a cui non si può dare una casa
Vago cercandoti ancora Lilith, sperando di ritrovarti, altrove, con un cuore ancora più grande e aperto, col cuore che avresti voluto avere
Vago portandomi addosso la colpa di un momento, di un unico momento di rabbia
L’abiura impossibile di un corpo che racconta violenza
“fine pena mai”

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