Tempo Civile

Mi hai detto che quella sera dovevi fare serata (un dovere categorico), perché non avevi altro momento, perché a lavorare per gli altri quei momenti per te li perdi.
Vivi una vita asincrona, e il mondo sembra non accorgersene, ignorare che dietro al bancone del bar, davanti al forno della panetteria, in tutti quei lavori che nascondiamo nel buio della notte o nei silenzi delle domeniche, ci sono delle persone che mettiamo ai margini.
C’è un tempo civile, che come sempre detta la norma, uno statuto di desiderabilità, e chi ne resta fuori, a volte perché necessaria a garantirlo.
E mi risuona nei frammenti della mia vita, a volte troppo vuota fino a che, verso le sei, finisce il tempo civile del lavoro salariato, e densa, piena, frenetica poi.
Mi piace pensare che se lavorassimo meno sarebbe più semplice gestire i tempi dispari delle nostre vite, trovare nuove sovrapposizioni in ritmi spaiati.
Mi hai suggerito però che così facendo si potrebbe creare solamente più tempo libero, e più lavoratrici dei servizi che riempiono quel tempo escluse dal tempo civile, costrette a vivere in levare, fuori sincrono.
E non ho una risposta da darti, solo altri dubbi.
Forse con più tempo libero è possibile invece che ci riapproprieremmo delle nostre vite, facendoci carico ognuna di preparare qualcosa da condividere per le altre, smettendo di esternalizzare pezzi di lavoro (domestico, di cura, di ristoro)? Forse lavorando meno sarà più facile lavorare meglio? Forse se il lavoro diventa una parentesi nella nostra vita diventa meno alienante affrontarla anche se ci porta fuori da un tempo civile, che forse a quel punto sarà rotto nella cacofonia di vite lasciate con troppi silenzi per non riscoprire il suono proprio?
Forse no, hai ragione tu, la comodità di trovare le cose pronte, di non doverle imparare, è per tante troppo grande. Forse anche se poco il lavoro che ti obbliga fuori dal tempo civile non sarà mai sopportabile.
Ho una paura simile di fronte a questo parlare di settimana corta, che comprima il tempo civile in meno giorni, senza turnare, con un lunghissimo fine settimana ancora sincrono, dove ancora la spesa, le visite, le code allo sportello obbligano o all’astensione dal lavoro, o a portare qualcuna in più a lavorare fuori dal tempo civile del lavoro.
La scuola una volta era spesso aperta il sabato, un sabato in cui i genitori che lavoravano durante il tempo civile del lavoro potevano esserci.
Cerco allora di immaginarmi una società senza tempo civile, in cui il lavoro sia rarefatto e irregolare, e ho problemi a immaginarla fino in fondo, ma sulla superficie la conosco.
Sono stati e sono i miei anni di università, a studiare quando riuscivo, fosse domenica o le quattro del mattino, e a trovarmi porta palazzo vuota perché avevo perso il conto della settimana, voler passare l’aspirapolvere quando tutti dormono, e voler dormire quando fuori la città si è risvegliata frenetica e chiassosa.
Possiamo però immaginarci a lavorare tre giorni a settimana su turni sempre mutevoli, fare di ogni giorno tanto un Sabato, quanto una Domenica, un Lunedì, un anonimo Mercoledì.
Vorrei provarci, a distruggere anche questo, a ricercare una fluidità nuova, di incroci sempre probabili, disorganizzato organizzarsi.
In fondo, ancora una volta, lavorare molto meno, ma farlo tutte, e in modo utile.
Ma ci sono due tasselli che non riesco a mettere a fuoco: la scuola e le sue ragazze, la sincronia dei loro tempi con le famiglie, e i grandi riti collettivi.
Ma se ormai il calcio lo giocano sempre, la messa è finita, e le piazze sono vuote, e famiglie ricomposte e disperse cominciano coi pranzi di Natale a Sant’Ambrogio, per la scuola non so se riesco a immaginare una soluzione.
Perché una scuola non su sette giorni ricreerebbe velocemente il tempo civile appena abbattuto, e non si possono tenere le ragazze a scuola senza riposo, ma nemmeno rendere la scuola un’esperienza sporadica.
E fosse anche nuovamente una scuola su sei giorni, turnando però i riposi, potresti non sincronizzare le classi delle sorelle, e i turni dei genitori?
Potresti lasciare le ragazze e le loro insegnanti andare in vacanza ciascuna in un momento diverso, creando una partitura di orchestra continua, senza silenzi e senza fortissimi, ma solo con controcanti e fughe tra sezioni?
Riconoscere in fondo una disordinata artigianalità nell’educazione, invece che l’apparente linearità del sapere trasmesso.
Ho bisogno di non smettere di immaginare un mondo oltre la modernità, che riesca a liberare ognuna nel flusso caotico della sua vita, organizzando il mondo macrocosmico intorno al nostro intimo microcosmo emotivo, il bisogno di ritrovarci in noi e nelle altre che scegliamo, in una nuova famiglia da ricostruire e riimmaginare.
Ma alcune istituzioni sono ancora troppo totali, troppo radicate dentro e intorno a me, per riuscire a vederle da una nuova prospettiva, come nel Picasso più maturo, che mostrava il cambiamento nell’illusione della staticità.
Eppure continuerò a provarci, a cercare spiragli di un mondo storto e sghembo che potremmo chiamare futuro, col desiderio di andarci.
E ogni volta che non sono da sola a farlo, che un pezzetto delle vostre vite mi propone questo sforzo, è un regalo, un pezzetto di senso, che mi donate.

[Questo post si può anche ascoltare su Bobo]

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