L’economia è reale sempre per negazione.
Perché non finanziaria, e quindi legata a effettivi processi produttivi che includono merci e lavoratori. (Si potrebbe descrivere anche la finanza come sistema produttivo che trasforma il debito, ma questa osservazione ci porterebbe comunque verso il discorso che mi appresto a fare)
Perché non teorica, e quindi radicata nell’esperienza concreta e immanente.
Oppure, aggiungo io, perché non normativa, legata cioè a effettivi processi materiali che, sebbene sicuramente determinati da cultura, società e norme, ad esse precedono.
Alla base di ogni fenomeno economico ci sono tre cose: materia, tempo, conoscenza.
La conoscenza determina come possiamo impiegare il tempo delle persone per trasformare la materia.
Oltre la trasformazione della materia per mezzo del tempo di esseri umani, tutto diviene norma, prassi culturale che indirizza i processi reali.
La moneta è comoda, ma come fissare il giusto prezzo e quindi il giusto valore è un problema aperto dagli albori dell’economia classica.
I diritti di proprietà sono senza dubbio comodi, ma hanno una legittimità culturale, spesso cristallizzando rapporti di forza nella società. Come è possibile che il Congo sia al contempo uno dei bacini minerari di maggiore valore al mondo e uno dei territori più poveri?
Abbiamo interiorizzato il concetto di retribuzione del capitale per mezzo del profitto, ma né l’accumulo di capitale, né la sua retribuzione o l’estrazione di profitto sono necessari per trasformare materia in materia per mezzo del tempo.
La scelta di limitare la diffusione di conoscenza attraverso brevetti e la legalità delle norme di riservatezza non è un prerequisito per l’economia, ma una norma sociale volta, generalmente, a tutelare posizioni di vantaggio.
Allora forse l’economia reale la dovremmo definire perché non immaginata, imperfetta e sfruttatrice, e dovremmo chiamarci a uno sforzo di immaginazione narrativa e non solo, per costruire dal nocciolo necessario dell’economia un’economia giusta