Gatti

Guardava dal balconcino della cucina quel pezzo di città che si preparava al riposo.
Le tapparelle che si abbassavano, i gatti imperterriti sui tetti, ignari che il tempo civile e i padroni prescrivevano il loro rientro, luci che si spegnevano, televisori che pian piano terminavano il loro canone tornando al silenzio.
Sopra di lui il cielo stellato, a bassa definizione in città, con sole poche stelle e pianeti che più che figure sembravano lucciole in un ricordo d’infanzia.
Dentro di lui metà della bottiglia di birra appoggiata sul tavolino affianco al libro che provava a leggere.
Lavorare con orari sfasati rispetto al mondo gli regalava queste istantanee uniche della città, un punto di vista segreto eppure in piena vista, diventava custode di una verità evidentemente invisibile.
Leggeva poco in quei momenti, ma la città gli forniva tutte le storie di cui aveva bisogno: ogni dettaglio diventava un incipit, ogni figura in controluce alla finestra un personaggio, ogni angolo in quello scorcio di città un palcoscenico

Oltre la ringhiera calava il sonno.
Palpebre calavano sulle finestre delle case, gatti senza orologio al polso ignoravano il momento e i doveri, il canone del coro di televisori dissolveva al nero.
Il cielo stellato ripreso in Super8 sembrava le lucciole impresse su una pellicola vecchia quanto lui.
La legge morale aveva ceduto il posto a mezza bottiglia di birra, i buoni propositi riassunti in un libro che non leggeva mai.
I tempi dispari conservano punti di vista eccezionali, mostrano il vero invisibile a ciò che non sia evidente.
Nei libri non trovava raccontati i dettagli che aveva davanti, le figure in controluce incorniciate dalle finestre, agitarsi sui palchi negli angoli della città.

Pioveva sabbia.
Le case chiudevano gli occhi, i gatti facevano voto di povertà e anarchia, ogni canale su un diverso registro spariva con un taglio affatto netto.
Proiettavano le lucciole riprese in Super8 quando era bambino.
Un timido edonismo assunto a morale, di cui non si poteva conoscere lo scopo.
La verità rimaneva in bella vista fuori dal mazzo, spaiata come il battito in più che ignori nelle attese quadrate.
Negli angoli della città spettacoli di ombre animavano realtà mai raccontate prima.

Pioveva sabbia.
Gatti rivoluzionari strappavano pagine dal catasto agricolo, col tacito benestare della nobiltà.
Erano invecchiate male le inchieste voyeuristiche della controcultura.
Il piacere, diventato mezzo, smetteva di essere tale senza capire perché.
Al mazzo di tarocchi mancava una carta, aspettava che il cartomante smettesse di tamburellare sul mazzo e disponesse le carte in croce, per una verità di certo falsata.
Gli ultimi della città apparivano brevemente illuminati dai fari delle auto di passaggio, e subito scomparivano, dimenticati.

Pioveva sabbia.
Gatti rivoluzionari strappavano pagine per conto del potere.
Era tempo di seppellire i padri.
Disimpararono l’orgasmo, accontentandosi di un’ombra di vita.
Il matto aspettava il racconto del proprio destino, per sconfessarlo di nuovo.
Nessuno vede la periferia quando i lampioni sono spenti.

Tarocchi

(Questo racconto può anche essere ascoltato su Bobo)

Mischi un mazzo di Tarocchi. Lo sai che non ha senso, che non c’è nulla di scientifico, razionale o ragionevole in ciò.
Ma ti dà sollievo, ti dà modo di pensare, dici.

IV L’Imperatore
Questo è facile, potrebbe avere la faccia di Musk o di Bezos, il potere economico sempre più ristretto nelle mani di pochi, capaci di controllare la stampa, la politica, le merci, i dati.
Il potere politico popolato di prestanome ormai irrilevanti, l’epoca dei grandi movimenti di massa sembra finita.

V Il Papa
Chi è oggi il potere spirituale? Dio è morto, la Chiesa è in crisi, a chi ci rivolgiamo? Alla Scienza.
Oggi il Papa non ha volto, se non quello dimenticato di Nobel su una medaglia.
La Scienza si è fatta impersonale fede collettiva, metro di verità del mondo, che si rivendica oggettiva e distaccata dallo scienziato e dalla morale.
La Scienza non si può più contraddire, la Scienza che si è fatta Tecnica e non è più in grado di guardarsi allo specchio, di guardarsi dietro e dentro: può solo correre avanti verso il Progresso®, in una sequenza di bombe, droni, sedicenti intelligenze che ripetono il reale.
La Scienza si è fatta morale collettiva, ci siamo dimenticate che si accompagnava ad altre parole: borghese, rivoluzionaria.
Non tutta la scienza ci piaceva, sapevamo che la scienza racconta il mondo di chi la fa, di chi la finanzia, che c’è la nostra e la loro scienza, che la controcultura era anch’essa scienza.
Invece adesso scendiamo in piazza con il report dell’IPCC al posto della Bibbia.

VIII La Giustizia / XX Il Giudizio
Abbiamo sempre cercato di evitare l’arbitrio del Giudice finché non eravamo noi sul banco degli imputati, allora abbiamo chiesto clemenza, discrezionalità, eccezione.
Le macchine hanno cominciato a emettere sentenze di cui non conosciamo più la ragione, che replicano il giudizio di uomini del passato.
È tutto finalmente meccanico, la verità inappellabile, oggettiva perché privata di soggetto che la pronuncia, il tempo lineare fino alla fine dei giorni.
Tutto è già scritto, non serve più il libero arbitrio, ma solo seguire il corso delle cose, la conoscenza ci guida verso il Progresso®.
Servono davvero due Arcani diversi per il giudizio divino e quello dell’uomo, o sarà la macchina a dipanare il mondo?

XVIII La Luna / XIX Il Sole / XVII Le Stelle
Gli astri, sono Arcani contraddittori, se è Luna non è Sole e tanto meno Stelle, terzo non dato e il vero che si oppone al falso. Aristotele, non mio cugino.
Come si può vivere così? Senza sapere da che parte sta il bene e il male, in quale direzione bisogna andare?
Servono certezze all’uomo, esperti di cui potersi fidare, con le risposte alle domande che gli si pongono. È finito il tempo per gli intellettuali sofisti, secondo i quali tutto è più complesso, dipende, non si possono dare risposte tenendo in considerazione solo un aspetto delle cose.
Per fortuna ci sono gli esperti a salvarci, con le loro certezze, i loro entusiasmi, chiederemo a un astronomo quale è vero tra il Sole, la Luna e le Stelle, a cosa ci serve più un poeta che ce lo racconti?

XXI Il Mondo
Questo invece è un Arcano che deve restare, perché non c’è nient’altro che il Mondo.
La Realtà è l’unica cosa che davvero conta, perché con quella poi ci interfacciamo.
E per fortuna la Scienza ci insegna come conoscerla, ci mostra che la Realtà è una, chiara, oggettiva, uguale davanti agli occhi di tutti, e chi non la vede deve essere malato, ma lo si può curare.
Non serve altro oltre la Realtà, il realismo non è una scelta, è una necessità per non perdere tempo, per dare il massimo per correre verso il Progresso®.

VI L’Innamorato
Chimica dell’attrazione, dell’alterazione. Chimiche le fondamenta della mente. Chimico il benessere.
Ci permetteremo ancora di innamorarci, di interrompere il tempo della produzione, la linea che sforna prodotti sempre meno tangibili?
In quale versione del DSM comparirà il disturbo da affezione immotivata, di che colore sarà il filtro d’amore al sapore di psicofarmaco, la famiglia finalmente sogno borghese della gestione patrimoniale sostenuta non più dall’obbligo, dalla decenza o dal pudore, ma dalla rassicurante chimica.
Innamorarsi per scelta, come atto razionale, ragionevole.

XII L’Appeso
Facciamo un gioco, guardiamo dove ci ha portato il Progresso® e poi mettiamoci a testa in giù, guardiamolo di sbieco, cosa vediamo?
Lo so che sembrano case sbriciolate dalle bombe, bambini affamati, senza tetto in città di case vuote, scheletri sul fondo del mare, foreste abbattute per fare spazio alla soia, ma è solo una questione di prospettiva, per favore adesso rimettiti composta, siediti bene, mento alto, sguardo in avanti verso il futuro, vedi che adesso ha tutto un aspetto diverso: la pace, la cooperazione internazionale, i programmi di inclusione sociale, le borse di studio, la fine della fame nel mondo…

X La Fortuna
Quindi non ti sembra che tutto sia così definito e inevitabile. Mi stai dicendo che nella vita affronti delle scelte e non sei mai sicura di quale sia la decisione giusta?
Che hai visto medici sbagliare diagnosi, Intelligenze condannare innocenti per la loro razza, esperti contraddirsi tra loro e il Progresso® creare povertà intorno a te?
Preferisci leggere i Tarocchi perché ti permettono di andare dove vuoi, di non dover sottostare a regole d’altri, di non dover sempre ragionare su cosa sia realistico, possibile in questa Realtà, ma di poter sognare anche ciò che è desiderabile, possibile in assoluto?
Hai bisogno di storie, con trame poco lineari che rassomiglino alla tua vita, dove di certezze ne hai poche e tutto sembra legato al caso, a singoli insignificanti episodi.

II La Papessa
No, non è di nuovo il Papa, questa volta è l’inganno, è lo spirituale che diventa temporale, reale, il dubbio.
È la fede che rinasce ed entra ed esce dalla Scienza, che distrugge lo scientismo riportando la scienza tra gli uomini, sbriciolando le sue certezze monolitiche, cementandola nuovamente con la morale.
La Papessa è una giovane rivoluzionaria che accusa la scienza borghese di confondere il reale con il necessario, di ammantare di inevitabilità le scelte.
La Papessa è una manager in carriera che accusa la scienza rivoluzionaria di aver perso ogni contatto con la realtà, di aver rinunciato a ogni empirismo pur di inseguire un sogno.

IX L’Eremita
Sei tu dici?
In una casa in appennino lontana da tutto ciò che va troppo veloce, a coltivare un angolo di mondo.
In una casa in pianura dove continui a leggere cercando qualcuna che abbia già scritto quello che stai pensando perché non puoi essere la prima, ma non sai dove cercarlo perché la Scienza sembra raccontare un altro mondo, non il tuo.
Sotto un albero in mezzo al prato a cercare di ignorare il tempo che corre, fissando i dettagli che scorrono intorno a te.
Sei tu che leggi i Tarocchi invece che il giornale perché hai bisogno di guardarti in faccia, dentro di te, di capirti, di raccontarti, di scoprire i tuoi di archetipi, prima di poter provare a interpretare l’Altro.

Ø Il Matto
Sarai tu.
Quando continuerai a leggere i Tarocchi per raccontare storie sul futuro, noncurante se siano realtà o desiderio, quando esplorerai le possibilità ascoltando solo te stessa, accettando il terzo incluso e il principio di assoluta contraddizione.
Che alla Scienza sostituirai nuovamente la politica, al realistico il desiderabile, al Giudizio fatalista la Giustizia liberatrice.
Stesa sotto il Sole, la Luna e le prime Stelle nello stesso momento, ascoltando il bene e il male che convivono anche in te, l’oppressa e l’oppressora.
Innamorata, euforica, rabbiosa, depressa, triste e sollevata, forse nello stesso momento, perché così hanno voluto gli incidenti della vita.

Il Matto è colei che esperisce la follia, pratica epistemica che rifiuta un senso generale delle cose, che significa ogni evento di per sé, senza legami o vincoli con gli altri, rifiuto radicalissimo della Scienza e della sua logica, teoria del tutto intrinsecamente contraddittoria nel rifiutare il concetto di tutto e accettare la propria contradditorietà.
In un’epoca che sta elevando la Scienza (reazionaria perché realista) a metro inscalfibile della verità collettiva, ogni spazio di irrealtà, di contraddizione o di narrazione, la risoggettivazione e risemantizzazione della propria esperienza, l’ascolto di sé stesse nelle forme che sfuggono la ragione per riconnetterci con le nostre emozioni più urgenti e importanti, diventano rifugio necessario per sperimentare la rottura con la cappa egemonica di realismo che ci opprime.
Il recupero, prestito e trasformazione di immaginari permettono nel loro essere necessario altro (rifiutato) dalla Scienza di aprire istintivamente quegli spazi di esplorazione di sé, del noi, del possibile, del desiderabile che le istituzioni del nostro tempo non sono più in grado di (né possono) fornire, ma che sono ugualmente necessari all’esperienza umana e al suo rapporto col futuro.

Di Genere e Olimpiadi

Cara grande famiglia brocca (sui blocchi o nel contesto che preferite),

chi scrive scrive subito dopo le Olimpiadi, il che suggerirebbe di non farlo e aspettare un po’ di tempo per vedere se il pensiero resta lì.

chi scrive ha abbandonato ogni velleità di agonismo a 14 quando un ginocchio ha detto basta su un campo da rugby.

chi scrive probabilmente non aveva mai visto una gara di arrampicata prima delle Olimpiadi.

Ma troppi pezzettini sembrano incastrarsi dentro e fuori l’arrampicata per non provare a condividerli.

Possiamo partire dalle prove di boulder femminili, in cui ho avuto l’impressione (sia in semifinale che in finale) che i blocchi fossero stati tracciati assumendo una certa altezza delle atlete.

Flashback a un pomeriggio in palestra in cui su una lavagna c’era scritto (senza dubbio da mani profane) un pensiero tipo “meno tracciatori più tracciatrici”.

Cinque delle atlete che hanno partecipato alla combinata olimpica non superano il metro e sessanta e solo una (MacKenzie) è più altra di un metro e settanta (e mi ha dato l’impressione spesso che i blocchi fossero tracciati sulla sua misura). Nella gara maschile invece due solo atleti erano più bassi di un metro e settanta e parecchi partecipanti erano oltre un metro e ottanta.

L’impressione è stata quindi di percorsi tracciati da mani maschili, senza particolari passaggi stretti (o discese) per valorizzare chi è fisicamente più compatto.

Delle dieci persone che hanno tracciato i percorsi per la gara olimpica solo due sono donne (entrambe nel gruppo per i blocchi), così come sono quasi sempre uomini gli allenatori, i cronisti e (dalle poche informazioni reperibili in rete) fu un uomo a disegnare il percorso di speed.

È come se anche nello sport sia lo sguardo maschile a definire le cose, siano ancora gli uomini a stabilire il campo di gara per loro e per le donne.

Saltiamo sul ring, a nessun uomo viene richiesto di dimostrare di avere un corpo conforme (Phelps dice qualcosa?) o di non essere troppo donna per gareggiare, nemmeno nelle discipline artistiche (dove comunque non c’è il programma maschile come nella ritmica o nel nuoto, o viene adeguato cambiando gli attrezzi della ginnastica artistica): le competizioni femminili sono quindi le competizioni altre, quelle separate, quelle per cui devi dimostrare di poter partecipare, le maschili invece una sorta di Open.

Mi sarebbe sinceramente piaciuto vedere le due gare svolgersi sullo stesso tracciato, una di fila all’altra, per vedere quanto ci sia effettivamente una differenza.

Per fortuna c’è la speed (e le distanze dell’atletica e del nuoto, e il ciclismo su pista, …) a ricordarci che comunque gli uomini sono più bravi e prestanti, e che quindi le categorie femminili protette sono fatte per non umiliare le atlete e dare anche a loro una possibilità. MA

Ma come dicevamo prima il campo di gara non è sempre pari, sono considerati sport (prestigiosi) quasi solo le forme in cui un corpo archetipicamente maschile ha un vantaggio.

Ma soprattutto quanti uomini riesco a vivere di sport e quante donne? Quanti arrampicatori professionisti ci sono e quante arrampicatrici? Quante gare e imprese maschili in più sono trasmesse e diventano appetibili per gli sponsor? Quanto la ricerca su allenamento e prestazioni tiene conto del corpo femminile (quella medica per esempio molto poco)?

Nella gara femminile è stata molto più evidente la differenza tra specialiste della corda, dei blocchi e Janjia Garnbret.

L’impressione di assistere ancora uno sport più immaturo, in cui le atlete molto più degli atleti non riescano ancora ad allenarsi in maniera totale, e il talento generazionale quando arriva è incontrastabile, ma arriva sempre prima per gli uomini (per tornare in bicicletta, tra la prima Sanremo di Merckx e il primo mondiale di Vos ci sono 40 anni).

Mi viene da chiedermi se quel secondo e qualcosa di differenza nella speed sia davvero necessario: se disegnando un altro muro e garantendo la stessa continuità e specificità di allenamento ad atlete ed atleti non sarebbe possibile anche ribaltare la situazione (e chiedere agli uomini di dimostrare di avere avuto livelli di testosterone abbastanza alti in pubertà perché altrimenti, signora mia, con un bacino e le articolazioni meno rigide sono capaci tutti)?

Tempo Civile

Mi hai detto che quella sera dovevi fare serata (un dovere categorico), perché non avevi altro momento, perché a lavorare per gli altri quei momenti per te li perdi.
Vivi una vita asincrona, e il mondo sembra non accorgersene, ignorare che dietro al bancone del bar, davanti al forno della panetteria, in tutti quei lavori che nascondiamo nel buio della notte o nei silenzi delle domeniche, ci sono delle persone che mettiamo ai margini.
C’è un tempo civile, che come sempre detta la norma, uno statuto di desiderabilità, e chi ne resta fuori, a volte perché necessaria a garantirlo.
E mi risuona nei frammenti della mia vita, a volte troppo vuota fino a che, verso le sei, finisce il tempo civile del lavoro salariato, e densa, piena, frenetica poi.
Mi piace pensare che se lavorassimo meno sarebbe più semplice gestire i tempi dispari delle nostre vite, trovare nuove sovrapposizioni in ritmi spaiati.
Mi hai suggerito però che così facendo si potrebbe creare solamente più tempo libero, e più lavoratrici dei servizi che riempiono quel tempo escluse dal tempo civile, costrette a vivere in levare, fuori sincrono.
E non ho una risposta da darti, solo altri dubbi.
Forse con più tempo libero è possibile invece che ci riapproprieremmo delle nostre vite, facendoci carico ognuna di preparare qualcosa da condividere per le altre, smettendo di esternalizzare pezzi di lavoro (domestico, di cura, di ristoro)? Forse lavorando meno sarà più facile lavorare meglio? Forse se il lavoro diventa una parentesi nella nostra vita diventa meno alienante affrontarla anche se ci porta fuori da un tempo civile, che forse a quel punto sarà rotto nella cacofonia di vite lasciate con troppi silenzi per non riscoprire il suono proprio?
Forse no, hai ragione tu, la comodità di trovare le cose pronte, di non doverle imparare, è per tante troppo grande. Forse anche se poco il lavoro che ti obbliga fuori dal tempo civile non sarà mai sopportabile.
Ho una paura simile di fronte a questo parlare di settimana corta, che comprima il tempo civile in meno giorni, senza turnare, con un lunghissimo fine settimana ancora sincrono, dove ancora la spesa, le visite, le code allo sportello obbligano o all’astensione dal lavoro, o a portare qualcuna in più a lavorare fuori dal tempo civile del lavoro.
La scuola una volta era spesso aperta il sabato, un sabato in cui i genitori che lavoravano durante il tempo civile del lavoro potevano esserci.
Cerco allora di immaginarmi una società senza tempo civile, in cui il lavoro sia rarefatto e irregolare, e ho problemi a immaginarla fino in fondo, ma sulla superficie la conosco.
Sono stati e sono i miei anni di università, a studiare quando riuscivo, fosse domenica o le quattro del mattino, e a trovarmi porta palazzo vuota perché avevo perso il conto della settimana, voler passare l’aspirapolvere quando tutti dormono, e voler dormire quando fuori la città si è risvegliata frenetica e chiassosa.
Possiamo però immaginarci a lavorare tre giorni a settimana su turni sempre mutevoli, fare di ogni giorno tanto un Sabato, quanto una Domenica, un Lunedì, un anonimo Mercoledì.
Vorrei provarci, a distruggere anche questo, a ricercare una fluidità nuova, di incroci sempre probabili, disorganizzato organizzarsi.
In fondo, ancora una volta, lavorare molto meno, ma farlo tutte, e in modo utile.
Ma ci sono due tasselli che non riesco a mettere a fuoco: la scuola e le sue ragazze, la sincronia dei loro tempi con le famiglie, e i grandi riti collettivi.
Ma se ormai il calcio lo giocano sempre, la messa è finita, e le piazze sono vuote, e famiglie ricomposte e disperse cominciano coi pranzi di Natale a Sant’Ambrogio, per la scuola non so se riesco a immaginare una soluzione.
Perché una scuola non su sette giorni ricreerebbe velocemente il tempo civile appena abbattuto, e non si possono tenere le ragazze a scuola senza riposo, ma nemmeno rendere la scuola un’esperienza sporadica.
E fosse anche nuovamente una scuola su sei giorni, turnando però i riposi, potresti non sincronizzare le classi delle sorelle, e i turni dei genitori?
Potresti lasciare le ragazze e le loro insegnanti andare in vacanza ciascuna in un momento diverso, creando una partitura di orchestra continua, senza silenzi e senza fortissimi, ma solo con controcanti e fughe tra sezioni?
Riconoscere in fondo una disordinata artigianalità nell’educazione, invece che l’apparente linearità del sapere trasmesso.
Ho bisogno di non smettere di immaginare un mondo oltre la modernità, che riesca a liberare ognuna nel flusso caotico della sua vita, organizzando il mondo macrocosmico intorno al nostro intimo microcosmo emotivo, il bisogno di ritrovarci in noi e nelle altre che scegliamo, in una nuova famiglia da ricostruire e riimmaginare.
Ma alcune istituzioni sono ancora troppo totali, troppo radicate dentro e intorno a me, per riuscire a vederle da una nuova prospettiva, come nel Picasso più maturo, che mostrava il cambiamento nell’illusione della staticità.
Eppure continuerò a provarci, a cercare spiragli di un mondo storto e sghembo che potremmo chiamare futuro, col desiderio di andarci.
E ogni volta che non sono da sola a farlo, che un pezzetto delle vostre vite mi propone questo sforzo, è un regalo, un pezzetto di senso, che mi donate.

[Questo post si può anche ascoltare su Bobo]

Brevi note di stile su “Produzione di merci a mezzo merci”

Il libro di Sraffa arriva prepotente da un’altra epoca e due cose saltano all’occhio per la distanza con la ricerca moderna.

Sraffa non cita, se non brevemente in un’appendice. Quelle lunghe pagine di introduzione la cui assenza oggi è sufficiente per bloccare la pubblicazione di un lavoro, in Sraffa sono relegate alle fine, come un pezzo superfluo.
Questo non disturba perché Sraffa tratta un Problema, una Questione la cui importanza è autoevidente e non necessita di una giustificazione data dal contesto sociale in cui si fa ricerca.
Viene da chiedersi se oggi sia ancora possibile affrontare le Questioni solo per la loro rilevanza intrinseca o se sia inevitabile ripercorrere temi di ricerca che trovano giustificazione in una prassi autoriferita e guidata dalla discipline come insieme di persone invece che di conoscenze.

La prosa e il lessico di Sraffa, l’uso del formalismo, rimangono accessibili anche a un lettore non esperto. Il rigore è sacrificato sull’altare dell’intelligibilità, della possibilità di trasmettere la nuova conoscenza al di fuori di una cerchia ristretta di esperti.
Vocazione opposta al ricorso fatto da alcune Scuole al formalismo in quanto tale per erigersi alla sommità della disciplina e tagliare le gambe a quelle Questioni che mal si prestano a essere descritte nei termini dell’algebra lineare o dell’analisi.

Sul perché il concetto di merce base sia utile per costruire un ponte con l’Economia fondamentale o sul parallelismo tra la programmazione funzionale e il modo di Sraffa di registrare l’invecchiamento del capitale fisso tornerò forse altrove.

Dove è finito il nostro tempo

Sto avendo nell’ultimo periodo, e nella mia cerchia di frequentazioni non sono il solo, la sensazione di non essere abbastanza spesso a casa, a godersene la tranquillità e gli affetti e, allo stesso tempo, di non essere abbastanza spesso fuori casa, per fare cose divertenti e curare (o manutenere) la rete sociale.

Sembra una contraddizione, ma sono sempre più convinto che non lo sia.

Ma prima un passo indietro.

Il modello di organizzazione che ha retto fino agli anni 90 (e oggi in crisi nella direzione sbagliata) è anche noto come 8/8/8, cioè 8 ore di lavoro, 8 di sonno, 8 di tempo libero.

Sostengo che alla prova dei fatti sia sempre stato un modello 10/10/4 se non addirittura 14/10/0.

Il primo argomento che porto è che per dormire 8 ore ne servono almeno due in più per prepararsi la sera, prendere sonno (possibilmente senza farmaci), prepararsi la mattina e fare colazione.

Il secondo, quello sul tempo di lavoro, è più lungo e va diviso in due parti.

In primo luogo per cedere 8 ore al datore di lavoro si rinuncia anche a mezz’ora almeno di pausa pranzo e, nella migliore delle ipotesi, due mezz’ore di trasferimento casa e lavoro. Circa dieci ore “carico lavoratore”.

Inoltre questo conto deriva da una visione capitalista e lavorista per cui se non è retribuito non è lavoro. Invece dovremmo riconoscere che è lavoro tutto ciò che può essere delegato dietro compenso ma per cui, in alcuni casi, si ricorre all’autoproduzione. Gli esempi più comuni oggi sono il lavoro di cura e il lavoro domestico.

Sfido chiunque a negare che il lavoro domestico (fare la spesa, cucinare, pulire casa, fare lavatrici, riordinare, …) non richieda almeno una o due ore al giorno (retribuite a terzi o in auto produzione). Allo stesso modo qualunque genitore, o figlio di anziani, o membro di una coppia con carichi di lavoro sbilanciati (per mille diversi motivi) può testimoniare che due ore di lavoro di cura al giorno sono una situazione fortunata.

Possiamo dire, con una battuta, che se non nasci ricco, nel momento in cui cominci a lavorare, avrai nella migliore delle ipotesi quattro ore per te.

In quattro ore (dovendo includere gli spostamenti) vai a cena con amici, vai a prendere un tè facendo una lunga chiacchierata, vai a teatro, al cinema, fai una partita a un gioco da tavolo, guardi un paio di episodi di una serie tv sul divano avvolta in un plaid, ti alleni nel tuo sport preferito o in qualche forma di espressione artistica o artigiana, vai a una riunione di circolo, fai un attività di volontariato, prendi il tempo per una sessione di terapia o una visita medica. Ma una sola di queste cose.

In una settimana puoi fare cinque cose (qualcuna di più se nel weekend non viaggi, non devi recuperare lavoro -domestico o di cura- o sonno arretrato): non sono molte.

E scegliere le cinque giuste, che ci facciano stare bene, richiede una conoscenza del sé che nessuno ci guida a ricercare durante la scuola e che, incredibilmente, richiede tempo, dovendone sostituire almeno una delle altre cinque.

Per tornare alla sensazione iniziale, non è che sembra di non avere tempo: è che non abbiamo tempo.

Siamo compressi in una società capitalista che pur di garantire rendite produce e consuma più di quanto serve, riempiendosi di lavori di merda e bisogni di consumo indotti.

Dobbiamo pretendere di lavorare meno con un potere d’acquisto maggiore, ma non le 32/36 ore di cui tanti “illuminati” capitani di azienda si vantano, serve ridurre l’orario di lavoro a 20 ore, se non meno, (un part-time) per tutti.

(I soldi ci sono, i ricchi non servono alla società e possono essere tassati molto più di oggi, dare i soldi ai poveri quasi si ripaga da sé con l’aumento di attività economica che ne consegue. Ma soprattutto la moneta non esiste nella realtà, è un costrutto sociale con cui dividiamo i diritti di proprietà sui beni materiali e orientiamo la produzione. Nel momento in cui, come oggi, produciamo abbastanza per non far morire nessuno di fame non è il PIL che deve interessarci, ma il numero di poveri e, al limite, l’output materiale.)

(Oggi in Italia sono retribuite poco più della metà delle ore che la popolazione adulta può lavorare considerando una settimana da 40 ore, ma c’è chi ne fa 60, chi è disoccupato e chi campa sulle spalle degli altri)

Merce o Denaro?

Il più semplice ed essenziale sistema economico non richiede denaro. Beni e servizi (di qui in poi merci) possono essere scambiati direttamente tra loro in un meccanismo di baratto, usati direttamente come forma di retribuzione (il contadino pagato con parte del raccolto) o gestiti direttamente dalla comunità (per consenso o per concessione del tiranno).

In questo senso il sistema economico base è Merce -> Merce (MM).

Non è però il sistema più comodo, anzi. Portarsi dietro chili di grano per comprare una sedia non è pratico, e non è detto che il falegname necessiti di grano invece che di pomodori.

In quest’ottica è evidente perché il denaro come mezzo di scambio e contabilità sia stato inventato.

Un economia Merce -> Denaro -> Merce (MDM), in cui cioè il lavoro viene salariato con moneta, semplifica il commercio rendendo commisurabili beni diversi e permette di gestire in maniera decentralizzate l’allocazione di risorse scarse.

Il punto focale del sistema economico è ancora la produzione dei beni e servizi utili alla vita, ma rende inevitabile determinare come si retribuisce il lavoro.

La risposta più comune è che un lavoratore verrà pagato di più (cioè si valuterà di più il suo tempo) tanto meno sia sostituibile per capacità o condizione sociale.

È ragionevole supporre che in un sistema MDM, così come in un sistema MM, si possa parlare prevalentemente di valore d’uso piuttosto che di valore di scambio soprattutto nello studio di ciò che guida la domanda di merci.

La catena MDM è chiaramente parziale e rappresenta una chiave di lettura di quale sia tra merce e denaro il punto focale dello studio del sistema economico e il principale motore.

Nella realtà infatti la catena è …MDMDMDMDMD…, poiché la merce acquistata da uno è merce venduta da qualcun altro che perciò riceve denaro con cui acquistare merce, eccetera.

L’altro modo di spezzare la catena è Denaro -> Merce -> Denaro (DMD), ovvero quel tipo di economia in cui la produzione di beni è servizi non diviene più il fulcro del sistema, ma un modo di generare interessi sul capitale, ovvero di estrarre dalla produzione plusvalore.

DMD è probabilmente l’essenza e la definizione di Capitalismo ed è un sistema economico che funziona solo per le élite, per coloro che dispongono all’inizio del ciclo di un capitale superiore ai loro bisogni di consumo.

Anche in un sistema che complessivamente è, se misurato in valore, DMD, perché la ricchezza è molto concentrata, il grosso delle persone continua a vivere in un sistema MDM.

Caratteristica di un sistema DMD è che il valore d’uso e il valore di scambio finiscono per coincidere con quest’ultimo, perché l’unico uso di una merce è l’essere rivenduta.

Infine la finanziarizzazione dell’economia produce un sottosistema che è Denaro -> Denaro (DD), in cui la compravendita non avviene più su beni e servizi materiale, ma su debiti, titoli di proprietà o, generalizzando, su beni astratti generati da norme e istituzioni.

Un sistema DD completa quella separazione tra massa e élite: i primi necessitano di un’economia MDM, i secondi possono disinteressarsi dell’economia reale (cioè della produzione di merci).

Infine un sistema DD è necessariamente estrattivo poiché non è in grado di creare di valore ma solo di riallocarlo, dalla massa alle élite.

Finisco questa riflessione guardando al futuro.

Il denaro nasce come mezzo di gestione della scarsità e di decentralizzazione delle decisioni, ma diventa strumento di accumulo e estrazione di ricchezza.

A meno di non inserire un terzo elemento abbiamo elencato tutte le possibili catene, e allora un’economia post-capitalista deve necessariamente inserirsi in una di queste quattro.

Potrebbe essere relativamente semplice tornare a un’economia MDM attuando forti politiche redistributive e che prevengano accumuli di ricchezza, ma potrebbe non essere la sola soluzione.

Speculando, un’economia post-capitalista (e vagamente cyberpunk) MM si potrebbe basare su due fattori: la relativa abbondanza di molti delle merci necessarie a garantire un buon tenore di vita, data anche dall’automazione, e la capacità, mostrata per esempio da Amazon, di utilizzare i dati sul commercio per pianificare in maniera efficace l’economia.

Un economia del genere eliminerebbe il denaro eliminando lo scambio economico: un nuovo patto di cittadinanza garantirebbe ad ogni cittadino la possibilità di lavorare per produrre una delle merci necessarie e in cambio l’accesso a tutte le merci necessarie.

Non è uno scenario realistico, ma alcune proposte negli ultimi anni mostrano dei passi intermedi in quella direzione: reddito di base universale, beni comuni, cooperativismo, programmi di lavoro garantito, un ritorno al welfare universale, …

Economia Reale

L’economia è reale sempre per negazione.
Perché non finanziaria, e quindi legata a effettivi processi produttivi che includono merci e lavoratori. (Si potrebbe descrivere anche la finanza come sistema produttivo che trasforma il debito, ma questa osservazione ci porterebbe comunque verso il discorso che mi appresto a fare)
Perché non teorica, e quindi radicata nell’esperienza concreta e immanente.
Oppure, aggiungo io, perché non normativa, legata cioè a effettivi processi materiali che, sebbene sicuramente determinati da cultura, società e norme, ad esse precedono.
Alla base di ogni fenomeno economico ci sono tre cose: materia, tempo, conoscenza.
La conoscenza determina come possiamo impiegare il tempo delle persone per trasformare la materia.
Oltre la trasformazione della materia per mezzo del tempo di esseri umani, tutto diviene norma, prassi culturale che indirizza i processi reali.
La moneta è comoda, ma come fissare il giusto prezzo e quindi il giusto valore è un problema aperto dagli albori dell’economia classica.
I diritti di proprietà sono senza dubbio comodi, ma hanno una legittimità culturale, spesso cristallizzando rapporti di forza nella società. Come è possibile che il Congo sia al contempo uno dei bacini minerari di maggiore valore al mondo e uno dei territori più poveri?
Abbiamo interiorizzato il concetto di retribuzione del capitale per mezzo del profitto, ma né l’accumulo di capitale, né la sua retribuzione o l’estrazione di profitto sono necessari per trasformare materia in materia per mezzo del tempo.
La scelta di limitare la diffusione di conoscenza attraverso brevetti e la legalità delle norme di riservatezza non è un prerequisito per l’economia, ma una norma sociale volta, generalmente, a tutelare posizioni di vantaggio.

Allora forse l’economia reale la dovremmo definire perché non immaginata, imperfetta e sfruttatrice, e dovremmo chiamarci a uno sforzo di immaginazione narrativa e non solo, per costruire dal nocciolo necessario dell’economia un’economia giusta